Non avere colpe non significa non avere responsabilità

14.02.2013 11:58

Non avere colpe non significa non avere responsabilità


Alessandro Portelli, Lutto, senso comune, mito e politica nella memoria della strage di Civitella, in Leonardo Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 90-95


 

M.C.: Ecco! e lì incomincia la dolorosa storia!

Intervistatrice: Ma che cosa era successo?

M.C.: Che i partigiani aveono ammazzato i tedeschi.

Quasi tutti i racconti sulla strage di Civitella, a partire da quelli del 1946, cominciano con l'uccisione dei tedeschi: «Il giorno 18 giugno... vennero uccisi per mano dei partigiani due soldati tedeschi. Di lì cominciò la mia agonia e quella di tutti i miei compaesani»; «All'imbrunire del giorno 18 Giugno, non ricordo esattamente l'ora, la relativa calma che regnava in paese, nonostante l'avvicinarsi del fronte, fu improvvisamente rotta da un rumore di spari» 1.
Prima che il racconto cominci, per definizione non succede niente: l'incipit segna la rottura di equilibrio e silenzio, e l'avvento brusco di movimento e disordine.
Così, sembra che a Civitella prima dell'attentato partigiano non succedesse niente: «noi a Civitella, tranquilli...perché noi fino al 18 giugno la guerra la s'era sentita fino a un certo punto, ecco» (M.C.); «a Civitella si viveva tranquilli e felici» (P. F.) 2. Civitella era un paese «incorniciato dal verde di boschi profumati», un «'piccolo mondo antico' pieno di fascino ovattato e misterioso» dove «le
estreme faziosità politiche, che dividono gli animi e accendono l'odio, non erano mai esistite». I tedeschi «noia non davano» (M.C.); quanto ai fascisti, «chi aveva creduto in buona fede a quella politica non si era macchiato di alcuna nefandezza» 3.

Calamandrei e Cappelletto parlano di immagini di «paradiso perduto» e di «innocenza»: strane rappresentazioni per un paese sotto occupazione nazista, che ha attraversato il fascismo e ha visto avvenire il massacro di Vallucciole. Dobbiamo quindi interrogarci su come queste rappresentazioni lavorano sui «fatti». Per esempio, Alberto Rossi, che aveva 15 anni, ricorda un «tempo di guerra e di tristezza» che era anche, comprensibilmente, tempo di spensieratezza adolescenziale. Ma poi, sorprendentemente, trova proprio nella guerra i motivi della spensieratezza:

L'occasione di soddisfare alcuni nostri desideri si presentò nei primi mesi dell'anno, quando, vicino al paese, furono installati dai tedeschi un deposito di carburante e uno di munizioni. Le nostre escursioni incominciarono allora in quei paraggi e, eludendo la stretta sorveglianza, spesso riuscivamo a sottrarre qualcosa che ci riempiva di entusiasmo (CR, 229).

Non c'è niente di male in questa memoria infantile: sono molti i narratori per i quali il «paradiso perduto» di Civitella coincide con l'infanzia e l'adolescenza. Ma diventa preoccupante quando viene ripetuta intatta da adulti e confluisce come tale nella memoria contemporanea. Così, Rossi dimentica che proprio per un furto tentato in quel deposito di munizioni i tedeschi ammazzarono il diciassettenne Giulio Cagnacci. Lui ha il diritto di non ricordare; ma noi abbiamo il compito di prendere atto sia della morte di Cagnacci come fatto, sia della sua omissione dal racconto di Rossi come rappresentazione, e di come l'uno si evolve nell'altra 4.

Lo stesso vale per rappresentazioni più complessive. Le mura del paese demarcavano gerarchie e tensioni che qualificano la figura armoniosa del «paradiso»: «questo era un paese che c'era tanta invidia dai paesi vicini... perché era un paese sul signorile» (V.L.); «Noi s'era delle castellane! Coi contadini 'un ci si pigliava... Noi si tendeva ad esse' cittadini! Noi si credeva d'esse' un pochino più su di loro» (M.C.). Più crudamente, S.M. parla di «odio» fra Civitella e Badia al Pino (sede del comune), e racconta che nel dopoguerra, quando fu fatta la strada dalla frazione della Cornia, «veniva su una massa di operai del Tegoleto, e questa massa di operai erano veramente una massa di merda. [Edoardo] Succhielli [comandante partigiano] abita lì vicino» 5.

Con questa clausola, S.M. innesta il conflitto fra civitellini e partigiani su una precedente tensione fra «castellani» e «contadini», fra «artigiani» e «operai». La gravità dell'uccisione dei tedeschi dentro il paese è accentuata dal senso di un'invasione dello spazio intra moenia da parte delle classi subalterne del contado. Questo senso di violazione continuerà nel dopoguerra, quando i «giovani comunisti» della campagna pretendono di dettare legge in paese, magari per rivalersi di passate umiliazioni (Duilio Fattori, CR, 448).

Abbiamo dunque un doppio spostamento, nello spazio e nel tempo. Nello spazio, gli invasori sono tanto i tedeschi quanto i partigiani. Nel tempo, la storia non comincia con la guerra, né con la prima vittima dei tedeschi, ma con la prima azione (giusta o meno) dei partigiani. Questo doppio spostamento svela il senso profondo del conflitto fra il senso comune di Civitella e l'identità della sinistra. È la sinistra che dà scandalo, perché pretende di andare contro l'ordine inevitabile delle cose: la natura, l'ineguaglianza umana, il mercato. La sua mera esistenza è un'invasione, un'interferenza, che introduce la storia nella natura, il conflitto nella quiete, il racconto nel silenzio. E poiché l'ordine naturale coincide con il potere dei più forti, la hubris scandalosa della sinistra (come sottolineano i racconti di Civitella: « ma quando non hanno la forza in mano, con che coraggio vanno a fare... a ammazzà un tedesco?», P.C.) è aggravata dalla colpa di essere debole: - non solo di dare sempre l'assalto al cielo, ma di non espugnarlo mai.

Estranea invece ad ogni spirito contestativo, la narrazione di Civitella non accompagna quasi mai la denuncia della responsabilità partigiana a un'esplicita opzione ideologica; non si mette contro l'ideologia astratta della Resistenza, ma contro la Resistenza vicino a casa propria. È un atteggiamento che negli Stati Uniti chiamano NIMB, «Not In My Backyard» - fatevi pure la vostra resistenza, ma non dietro casa mia: «io i partigiani salvo quelli dell'alta Italia, quando salvarono le fabbriche! mica questi...» (P.F.); «lo ammiro i partigiani su al nord, possono aver fatto anche cose buone! [...] ma questi qui, no! questi qui della zona, no!» (B.B.) 6.

Come tutti i discorsi di senso comune, anche questo si regge su una dose di verità. Tuttavia, la sua funzione ideologica è distinta dalla sua verità referenziale (racconti analoghi sull'inutilità e dannosità dei partigiani locali esistono dappertutto, Nord compreso) e come tale va esaminata. L'utilità diretta della Resistenza infatti è un problema reale ma parziale. In primo luogo, in una guerriglia, nessun episodio singolo può dirsi determinante; tuttavia, la guerra d'attrito partigiana nelle retrovie crea tali problemi ai tedeschi da costringerli a una costosa e sanguinosa opera di ripulitura del territorio 7. Anche le stragi di Civitella, Cornia e San Pancrazio vanno messe in relazione sia con l'attentato di undici giorni prima sia con gli eventi bellici di tre giorni dopo: quando, il 2 luglio, il fronte arretra e i tedeschi si attestano dentro Civitella, il territorio è stato ripulito, con un'ottima scusa 8.

In secondo luogo, l'importanza dei partigiani è più morale che militare: l'Asse avrebbe perso la guerra comunque, ma è grazie a loro che noi italiani possiamo dirci protagonisti e non oggetti della nostra liberazione. Forse, uno degli impulsi che, oscuramente e fra ragioni più occasionali e meno nobili, conducono all'attentato di Civitella è che i partigiani dovevano manifestare la propria presenza perché in essa stava il riscatto del paese intero 9.

Alla presenza storica dei partigiani risponde la tendenza dei civitellini a sminuire la propria: sono solo « martiri, che non avevano fatto niente contro i fascisti, avevano fatto la prima guerra mondiale, avevano dato alla patria quello che dovevano dare» (V.C.) 10. Il narratore rivendica alle vittime le virtù cristiane della obbedienza e della docilità; ma parlando viola il senso della loro morte allo stesso modo della memoria resistenziale che ne fa «martiri» della libertà. I morti di Civitella (con una eccezione )11 non sono «martiri» - soggetti che si assumono le conseguenze di consapevoli trasgressioni - ma soprattutto vittime: «Noi siamo morti da innocenti»; «Noi 'un s'era fatto nulla di male, noi si pensava al lavoro, così, alla famiglia.» Non avevano compiuto nessun gesto che desse senso alla loro uccisione: sono morti inspiegabili, che generano un lutto insolubile.

L'incomprensibilità deriva anche da una definizione negativa di innocenza come pura assenza di colpa. Ma non avere colpe non significa non avere responsabilità: non aver fatto niente di male a nessuno è una cosa, non aver fatto niente contro il male è un'altra. Nella formulazione di V.C., invece, non avere «fatto niente contro i fascisti» diventa una virtù: è l'innocenza della «zona grigia», dell'attendismo, di chi «non si occupa di politica» e cerca di tenersi fuori dalla storia, salvo vedersela brutalmente gettare addosso all'improvviso 12.

Questa sottrazione alla storia investe anche il giudizio sui tedeschi. In Moby Dick, quando il capitano Achab annuncia l'intenzione di vendicarsi sulla balena bianca, il secondo Starbuck obietta: ma non è blasfemo prendersela contro una bestia, contro un animale che ti ha colpito per «cieco istinto» ? 13 La balena, essere di natura, non è colpevole; la colpa è solo di Achab che è andato a provocarla.

MC.: Si sa che i tedeschi l'è una razzaccia [...] si sa ch'erano cattivi [...] Perché siete andati a dargli noia?? Scusi... se c'è un leone, lì, e l'è feroce... però ha mangiato, però andate a danni noia, icché ni fa? La mangia anche se unn'ha fame! L'è feroce!

Più i testimoni di Civitella parlano dei tedeschi come «belve» o « bestie» 14, più cresce la sensazione che questo termine, introdotto per descriverne la malvagità, finisca invece per rimuoverli dalla sfera del giudizio morale. La «ferocia» di questa « razzaccia» ha l'ineluttabilità di un fatto di natura; per questo, nessun testimone contesta la «legge» dei «dieci italiani per un tedesco»:

MlC.: Avevano messo al comune giù a Badia al Pino - Per ogni tedesco ucciso ne verrà uccisi 15 civili - sicché avevano avvisato anche la popolazione. Sicché se loro sono venuti a fare questa rappresaglia... a un certo momento c'è chi ce l'ha spinti! 16

I partigiani «sapevano che ogni tedesco veniva ammazzato dieci civili» (P.C.). La forma passiva e impersonale («verrà uccisi», «veniva ammazzato») rimuove i tedeschi dal ruolo di soggetto grammaticale e morale. La legge esiste; nessuno si chiede chi l'ha istituita e con quale diritto e se è sempre inevitabile applicarla. Le uniche leggi che vigono senza il consenso dei governati e che agiscono inevitabilmente e senza mediazioni sono le leggi di natura. Se uno mette la mano nella gabbia, il leone morde; se uno dà la caccia a Moby Dick, la balena sfonda la nave; se uno aggredisce i tedeschi, i tedeschi massacrano. Forse anche per questo nessuno si chiede come mai, se la «legge» esigeva dieci italiani per un tedesco, a Civitella il rapporto fu di uno a cinquanta.

1 Uliana Merini ved. Caldelli (RB, 257); Lara Lammioni Lucarelli (CR, 271).

2 Uomo. 67 anni. 7.7.1993.

3 Ida Balò (CR, 3, 9-70); Don Daniele Tiezzi, «Paese mio», poesia (CR, s.i.p.); Teresa Milani ved. Bernini (GR, 365).

4 Una delle poche testimonianze che ricordano Cagnacci è anche una di quelle che non confermano il clima di spensierato idillio: «Fin dai primi mesi dell'anno 1944, si viveva in Civitella nella ansiosa attesa di un imminente minaccioso futuro di guerra...» Quest'ansia deriva dal fatto che il padre del narratore deve attraversare la zona del deposito per andare al lavoro, e mostrare ogni volta il lasciapassare ai tedeschi. «Qualche mese prima era stato ucciso in questa zona Gino Cagnacci...»: Dino Tiezzi (CR, 292).

5 Uomo, 62 anni, 11.9. 1993.

6 La figura del paradiso perduto serve anche a delegittimare i partigiani: «Non lo dovevano fare perché dovevano capire che anche se erano tedeschi non erano persone che davano noia» (A.M., uomo, 64, 9.9.1993). Più di un narratore pensa di sminuire il senso della loro scelta attribuendo ai partigiani motivazioni non idealistiche, dal furto alla «renitenza alla leva». Anche queste valutazioni corrispondono ad un diffuso senso comune.

7 Donna, 86 anni, 9.7.1993.

8 Enzo Droandri, I massacri avvenuti attorno ad Arezzo nei documenti della Wehrmacht, relazione presentata al convegno.

9 Le testimonianze del 1946 insistono molto sul fatto che la rappresaglia non fu immediata: «Rientrarono tutti e la vita si fece calma come prima» (Corinna Stopposi ved. Caldelli, RB, 260); «in questo frattempo i tedeschi seppero recitare a meraviglia la loro infame commedia» (Elda Morfini ved. Paggi, RB, 278). Il senso implicito sembra essere che il nesso fra l’attentato e la strage è meno diretto di quanto possa apparire a prima vista.

10 Vasco Caroti sostiene (smentito dai superstiti) che l'attentato fu fatto anche perché la gente del paese si domandava se i partigiani esistevano e avevano intenzione di fare qualcosa.

11 Uomo, 63, 4.10.1993.

12 Penso all'arciprete don Alcide Lazzeri, che ebbe la possibilità di salvarsi e scelse di morire con il suo gregge. Sulle modalità del suo sacrificio e i racconti che ne scaturiscono, cfr. più avanti, par. 3.

13 Come racconta un collaboratore dei nazisti, proprio lo sforzo di rappresentare un paese innocuo e pacificato accentua nei tedeschi la sensazione di essere stati traditi (Costantino Civitelli, CR, 265). Non posso evitare di chiedermi se il risentimento verso i partigiani non contenga anche una traccia di disagio per non avere fatto niente contro i fascisti e i tedeschi. Dalle interviste questo tema affiora solo quando si accusano i partigiani di non avere protetto il paese dalla rappresaglia: Ml.C. ed M.C. affermano che, se i partigiani li avessero aiutati, «la gente i paese l'avrebbe difeso».

14 Herman Melville, Moby-Dick, Midds., Penguin, Harmondsworth, pp. 261-62.

15 Sono termini ricorrenti nelle testimonianze del 1946: pp. 256, 258, 268, 276, 279, 280, 281.

16 Donna, 68, 7-8.7.1993. La narratrice insiste che «erano comandati» e si sentivano «traditi». Queste giustificazioni sono del tutto assenti nelle testimonianze del 1946.