Memoria di un Massacro

 L eccidio di Civitella

Parte seconda

(in italiano)

Memory of a Massacre

THE 18th OF JUNE 1944

Second part

(english)

 

Mappa di Civitella

    Civitella 18 6 1944

All'imbrunire del giorno 18 giugno, non ricordo esattamente l'ora la relativa calma che regnava in paese nonostante l'avvicinarsi del fronte, fu improvvisamente rotta da un rumore di spari. Per essere precisi un unico rumore, assomigliante per il mio orecchio inesperto al violento abbassarsi di una saracinesca, proveniente dal "Circolo" (1) a pochi metri di distanza da dove mi trovavo.

lo appena ventenne stavo sulla soglia di casa mia, la prima sotto il loggiato della "Piazza"(Piazza Vittorio Emanuele, 2 sub), subito corsi fuori per rendermi conto di quello che stava succedendo e vidi, al momento, le sagome di due persone che correvano in direzione del "Monumento ai Caduti" (9).

Alcune persone stavano'uscendo dal "Circolo" (1) in preda ad una grande agitazione. La terribile notizia arrivò subito: "Hanno ammazzato quei tedeschi al circolo" - "Come é stato?" - "Mah ! Credevano che fossero ubriachi e li volevano disarmarli ma quelli hanno reagito, mettendo mano alla pistola" - "Chi é stato a sparare? ... " A questo punto voglio chiarire perché si era detto "Quei tedeschi". Si trattava di quattro soldati tedeschi, apparentemente sbandati, che dal mattino si aggiravano per il paese. Il loro atteggiamento non si era rilevato ostile; offrivano sigarette e caramelle ai ragazzi e ai vecchi. Mio nonno tornò a casa con una manciata di caramelle e posandole sul tavolo disse: "Me le hanno regalate i tedeschi".

Li vidi anche lanciare dei razzi verso la Valle della Trove dietro il muro del mio giardino (3); nello stesso punto in cui dopo, avvenne l'eccidio (4).

Tutti eravamo usciti dalle case, ci si riuniva in gruppetti, parlando concitatamente, mentre si facevano strada nelle nostre menti, le terribili implicazioni che portava con sé quello che era avvenuto.

Le voci degli eccidi di Partina e Vallucciole in Casentino (a Nord di Arezzo) ci avevano raggiunto e perciò temere la rappresaglia tedesca era più che giustificato.

Fu tenuto consiglio in tutte le famiglie e la decisione comune fu quella di andarsene subito dal paese e nascondersi dove si credeva fosse più sicuro. Anche in casa mia, dopo concitate discussioni fu stabilito di andarsene dopo aver riposato qualche ora.

lo però non mi sentivo di dormire, ero agitata ed estremamente curiosa, così quando i miei riposavano (circa le ore 22), senza fare il minimo rumore, uscì di casa. La mia intenzione era di andare al "Circolo" e vedere con i miei occhi quello che era successo. Fuori l'oscurità era assoluta; impossibile vedere ad un minimo di distanza.

Mi allontanai solo di pochi metri e stavo pensando che per il buio e la paura forse mi sarebbe stato impossibile raggiungere la porta del"Circolo", quando udì, vicino a me distintamente l'ansimare o meglio il rantolo di un essere umano (5).

Rimasi un attimo incerta, poi pensai che forse si trattava di mio nonno (81 anni) che talvolta aveva difficoltà di respirazione. La finestra della sua cameretta dava sul loggiato, vicino a dove mi trovavo io, così mi avvicinai alla finestra che era socchiusa, ma dentro veniva solo un leggero russare.

Rimasi ferma e silenziosa, non sapendo cosa fare, il rantolo continuava, ma sembrava ora un po' più lontano. Al momento non seppi fare nessuna congettura e neppure ne sarei stata in grado poiché ignoravo che cosa era successo esattamente al "Circolo", ma pensai che era meglio tornare in casa. Ai miei non accennai nulla per evitare rimproveri.

Dopo aver dormito qualche ora, sul fare dell'alba con tutta la mia famiglia, ci dirigemmo verso una casa colonica nei pressi di Casa al Pazzo (circa 3 chilometri da Civitella), dove fummo accolti con grande senso di ospitalità. Passo un giorno o due di relativa calma.

Mio zio Luigi Lammioni che era segretario dell'ospedale di Civitella ed aveva anche qualche incarico nel Comune si sentiva responsabile e in dovere di tornare in paese per rassicurare i malati, gli anziani, le Suore con la sua presenza. Arrivò allora in paese una commissione di tedeschi, per accertare quello che era successo. Interrogarono brutalmente mio zio sul nome di chi aveva sparato. Mio zio rispose che sicuramente non era gente del paese e insistette su questa versione anche sotto la minaccia delle armi.

Alla fine i tedeschi sembrarono convinti e se ne andarono, non senza prima avere intimato di fare indagini e riferire l'esito al Comando Tedesco.

Mentre stavamo ancora a Casa al Pazzo, io, tornando in paese per prendere alcune cose, volli andare a vedere i due tedeschi uccisi. Erano stati sistemati nella stanzetta all'ingresso del "Circolo". Vicino a loro erano stati posti tanti fiori, atto di pietà delle donne di Civitella.

Degli altri due che formavano il gruppetto iniziale dei quattro tedeschi, uno era stato ferito gravemente, quello che avevo sentito rantolare la notte del 18 giugno sotto casa mia che in seguito mori, portato momentaneamente in salvo dall'ultimo superstite del gruppo.

Dopo qualche giorno arrivò un comunicato ufficiale: "Il Comando Tedesco si era reso conto che la popolazione di Civitella non era responsabile dell'uccisione avvenuta, imputabile a "ribelli" (questo era il termine per indicare i partigiani) e perciò ordinava all'Arciprete di annunciare dall'altare che gli abitanti di Civitella potevano tornare tranquillamente e pacificamente alle loro case d' origine".

Appena questa notizia si diffuse, tutti cominciammo a tornare alle nostre case e al nostro destino, tranquillizzati, fiduciosi nella nostra estraneità al fatto, resi ciechi e acritici dinnanzi alla realtà delle spaventose rappresagli già avvenute forse da un destino che incombeva su tutti noi.

Passo qualche giorno di relativa calma. Il passaggio del fronte si avvicinava. Verso Sud, il cielo era solcato dai bengala e dai bagliori dei combattimenti e già si sentiva il brontolio dei cannoni.

La notte lunghe file di autocarri tedeschi in ritirata si dirigevano verso Nord, per la via della "Trove".

Noi, in genere, si osservava tutto ciò con una specie di distacco. L'avvicinarsi dei combattimenti era vissuto come un'incognita gravida di pericoli, ma che per noi, abitanti di Civitella, un paese così lontano dalle vie di comunicazioni, privo di qualsiasi difesa militare, si sarebbe risolto senza gravi danni.

Poi cominciarono a circolare delle voci: "Al momento del passaggio del fronte é consigliabile che tutti gli abitanti si ritirino nelle proprie case, come misura di prudenza e sicurezza". Poi ancora "Si fa obbligo agli abitanti del paese di restare in casa, anche se si sentono rumori di spari". Penso che nessuno di noi seppe dare una interpretazione sinistra a queste voci.

Si avvicinava ormai il 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo. Niente lasciava presagire quello che stava per accadere.

Per offrire maggiori comodità ai miei parenti sfollati da Arezzo (mio nonno materno, il fratello  e  la sorella di mia madre) e per aiutare mia zia Marietta ad accudire le sue tre bambine molto piccole, io dormivo in casa di mio zio (2) Luigi Lammioni; in una cameretta che dava sulla "Piazza".

La mattina del 29 verso le 7,30 fui svegliata da un vociare concitato di donne. lo non mi rendevo conto della ragione che provocava tutto ciò e corsi da mio zio per avere spiegazioni. Mi disse che i tedeschi erano entrati in chiesa armati, ma non sapeva nulla di preciso.

Cominciarono gli spari. lo corsi da mia zia Marietta per aiutarla a vestire le tre cuginette, ero decisa a stare con loro, ma in quel momento sentì mio padre che mi chiamava: "Lara, vieni giù subito, il tuo posto e qui con noi in questo momento". La sua voce aveva un tono grave e autoritario che io non avevo mai sentito e che mi dette una strana sensazione. Non potei obbiettare e mi decisi a scendere le scale verso casa mia (situata al piano di sotto nello stesso stabile) dividendomi così dal tragico destino di mia zia e delle tre cuginette.

Gli avvenimenti ormai precipitavano. Mio zio Luigi, affacciato alla finestra della camera che dava sul retro stava gridando: "Lo zio Bista   (l'ingegner Giovanni Battista Lammioni) è qui sotto alla porta della cantina (6), vuole che gli si apra".

lo volai per le tre rampe di scale che portavano giù alla cantina e arrivata alla massiccia porta cominciai a armeggiare febbrilmente per aprire i numerosi chiavistelli che la chiudevano.

In quell'attimo sentì vicinissimo uno sparo. Non ancora mi rendevo conto di quello che stava succedendo. Finalmente aprì la porta e mi trovai davanti lo zio Bista (7), caduto a terra, terribilmente pallido, ma con un'espressione serena sul volto. Credendo che fosse soltanto ferito, mi slanciai verso di lui, ma la mano dell'altro zio che era sceso subito dietro di me, mi trattenne con forza: "Non uscire, i tedeschi sparano, ucciderebbero anche te!" Risposi: "Ma lo zio non può essere morto, é soltanto ferito, forse per sbaglio, perché i tedeschi avrebbero dovuto ucciderlo ?".

L'impatto con la morte di una persona straordinariamente cara era stato troppo forte: non potevo accettarla. Per anni sono rimasta ossessionata dal fatto che, forse, se avessi sceso le scale più in fretta, se avessi fatto prima ad aprire tutti quei catenacci (forse avrei salvato lo zio e riandava con la mente ai secondi che erano intercorsi fra lo sparo e l'apertura della porta).

Fu appunto in un secondo tempo che lo zio Bista (Giovanni Battista) era uscito di casa (10) molto presto, allarmato da qualcosa che aveva visto dalle sue finestre che davano nel "Piano di Civitella" (a Sud del paese) verso la Val di Chiana, forse un movimento insolito di truppe tedesche.

Si era praticamente messo in salvo attraverso le mura di cinta in un punto, situato nel mio orto sotto casa mia, dove si poteva scavalcare con una certa facilità (7). Poi il pensiero della famiglia e dei fratelli lo avevano indotto a tornare in paese verso la sua morte.

Allora mi precipitai in casa mia perché volevo convincere mio padre a scendere con me e portare dentro casa lo zio Bista. La mia famiglia era riunita nella grande stanza che dava sul retro, proprio sopra la porta della cantina. C'erano mio padre Dante Lammioni Maggiore dell'Esercito Italiano, mia madre Armida Caccialupi, la mia sorellina Maria Grazia, lo zio Giuseppe e zia Elena Caccialupi fratello e sorella di mia madre sfollati da Arezzo.

Mancava il mio nonno materno Federico Caccialupi che era andato alla prima Messa e non dovevo più rivedere vivo.

Mi precipitai da mio padre: "Babbo hanno ferito lo zio Bista, dobbiamo andare a prenderlo subito!" Mi rispose: "Lo zio non é ferito, é morto. Non possiamo fare più nulla per lui ormai. Lascia che te lo dica io che ne ho visti tanti morire nella Grande Guerra."

I miei cominciarono a discutere sull'opportunità che mio padre e lo zio Giuseppe scendessero attraverso una botola che dalla stanza dove eravamo immetteva direttamente nella nostra vecchia cantina.

In ultimo, questa soluzione non fu accettata, non ricordo bene con quali argomentazioni. Forse non fu ritenuta abbastanza sicura, o forse a mio padre non andava l'idea di lasciarci sole in quel momento.

Frattanto il rumore degli spari si intensificava ed ecco che nella stanza irruppe zia Assunta, la moglie dello zio Giovanni Battista (Bista) con in braccio il più piccolo dei suoi bambini, seguita dagli altri tre più grandicelli.

Sapeva della morte del marito e piangeva disperatamente. Mio padre l'abbracciò e disse: "Assunta, ricordati che fino a quando vivrò, i figli di mio fratello saranno anche figli miei". Queste furono le sue penultime parole.

Nel frattempo si udirono forti colpi alla porta. Mio padre forse lesse nei miei occhi il terrore e lo sgomento e mi disse: "Lara, mi hai sempre detto di avere coraggio, ora é il momento di dimostrarlo". Furono le sue ultime parole.

lo andai a aprire la porta e mi trovai davanti quattro tedeschi che, spingendo me da una parte, puntarono direttamente le pistole contro mio padre che mi aveva seguito da vicino.

Mio padre alzò le mani e quel gesto mi colpì dolorosamente; era come se il sostegno al quale mi appoggiavo con tanta fiducia fosse improvvisamente crollato, lasciandomi indifesa di fronte agli eventi.

Ci fecero quindi uscire di casa, io abbracciata a mio padre, seguiti da mia madre con la mia sorellina Maria Grazia e poi tutti gli altri.

Ci fecero dirigere in "Piazza" (16), verso la Chiesa (12). La piazza era gremita di soldati tedeschi, un numero ,enorme ed echeggiava di comandi in tedesco.

Mi pare che gli spari fossero cessati. Notai che molti soldati indossavano sopra l'uniforme, non la tuta mimetica, ma una specie di lungo grembiule di gomma mimetizzata. Al momento non mi resi conto del macabro significato di quell'accessorio.

Intanto avevamo fatto pochi passi verso la Chiesa; superata quella che noi chiamavamo la "Cisterna" (8) un tedesco mi separò da mio padre; alla mia resistenza con uno spintone mi mandò da parte indicandomi a gesti la direzione che dovevamo prendere, verso il "Monumento ai Caduti" (9).

Vidi con la coda nell'occhio mio padre che cercava di parlare con un soldato e toltosi l'orologio dal polso glielo consegnava.

Poi con mia madre, mia sorella, mia zia ed altri gruppi di donne ci dirigemmo verso il Monumento. Ancora soldati tedeschi a perdita d'occhio.

Stavamo camminando vicino al loggiato (Via di Sopra), sulla destra, quando, nonostante fossi sopraffatta da così violente emozioni e non certo in grado di osservare con attenzione quello che mi circondava, mi colpì qualcosa che stonava con il resto: c'era un soldato tedesco (o perlomeno che indossava la divisa tedesca) che si differenziava per il tipo fisico: era infatti piccolo di statura e bruno. Stava appoggiato a una colonna del loggiato (11), mentre un ufficiale tedesco con una pistola in mano gli urlava brutalmente non so quali ordini o rimproveri.

Il soldatino faceva disperatamente segno di no con la testa e mi parve che nel suo viso ci fosse terrore. Poi si girò verso la colonna. Eravamo più o meno all'altezza della porta del "Circolo", un po' prima del "Pozzo" (13) vicino al loggiato.

Naturalmente io non mi fermai, registrai solo questa scena così contrastante. Fatti alcuni passi sentì un colpo di arma da fuoco molto vicina e subito fui sicura dentro di me che il soldatino era stato ucciso.

Tale certezza però non aveva alcun riscontro con i fatti, non lo vidi cadere, né tanto meno vidi il cadavere. Inoltre ad impedire la visuale s'era interposto il "Pozzo".

Nessuno del gruppo che era con me sembrò avere notato la scena, loro erano un po' più avanti e forse spostati sulla sinistra. Cominciai a pensare che mi ero sbagliata e del resto altri avvenimenti incalzavano.

Continuammo il 'nostro cammino verso il "Monumento ai Caduti" (9) e poi verso la "Porta Senese " (14).

Il numero dei soldati in questa parte del paese sembrava adesso minore e si era attutito il rumore degli spari.

Notai alcuni uomini anziani (almeno 2) che in gruppo con i propri familiari si dirigevano nella nostra direzione. (Al momento la cosa non mi sembrò strana, come invece mi apparve in un ripensamento posteriore).

Usciti dalla "Porta Senese" continuammo a camminare per un po',e ci fermammo sotto i cipressi della "Maestà Tonda" (a circa un chilometro da "Porta Senese") per aspettare notizie.

L'angoscia di quei momenti era profonda, ma evidentemente non avevamo la lucidità e la logica per giudicare gli avvenimenti e trarre le inevitabili conseguenze. In fondo al nostro animo resisteva ancora una irragionevole speranza: che i nostri cari fossero risparmiati.

Molto presto arrivò la notizia: "Tutti uccisi, tutte le case incendiate."

Ricordo con chiarezza la zia Assunta che si era trattenuta in paese ed ora veniva giù verso di noi ed io che le corsi incontro su per la strada assolata per sapere,di più, perché io nutrivo ancora quella irragionevole speranza.

"Zia che cosa é successo ?"

"Li hanno ammazzati tutti"

"Anche il mio babbo?"

"Si, il tuo babbo, il tuo zio Beppino, il tuo nonno. Il tuo babbo era ancora vivo quando l'ho visto io, era per terra ferito, si lamentava e chiamava la tua mamma, allora un soldato gli ha sparato alla tempia."

Da quel momento e per qualche tempo la mia memoria non mi rimanda quasi nulla di preciso solo il lungo incubo delle notti passate con la testa appoggiata ai tavoli della refezione dell'Orfanotrofio di Poggioli, dove avevamo trovato momentaneamente rifugio. Poi tornammo in paese, non mi ricordo esattamente, ma quasi con certezza il giorno dopo.

Le strade erano piene di fumo e si sentiva l'odore dei corpi bruciati.

Nell'ingresso di casa mia erano stati trascinati quattro cadaveri. Ne riconobbi solo uno. Non mi ricordo se qualcuno ci aiutò a portarli fuori.

La vecchia casa stava lentamente bruciando. lo in un impeto sconsiderato di disperazione, non ascoltando le urla disperate di mia madre che mi scongiurava di non farlo, mi gettai verso le stanze già toccate dal fuoco per recuperare qualche inutile oggetto.

Feci appena in tempo a uscire che tutto il soffitto di pesanti travi di legno infuocato precipitò nella stanza.

Poi ancora periodi di vuoto nella mia memoria.

Mio padre e parte degli altri giacevano ancora nel luogo dove erano stati fucilati, cioè vicino all'Asilo Infantile, sotto il muro del mio ,giardino (luogo dell'eccidio 4).

Mio padre aveva un'espressione serena sul volto cereo, sangue raggrumato dalla parte del cuore e sopra l'orecchio.

lo recuperai il suo fazzoletto dal taschino della giacca, perforato dai proiettili e rigido di sangue (si può trovare alla sala dei ricordi   in mappa n. 17). Li vicino c'erano anche i corpi di mio zio Giuseppe e di mio nonno Federico con gli stessi segni di arma da fuoco. Non mi ricordo esattamente, ma penso che per il momento li lasciammo ancora lì, perché ne io ne mia madre avevamo la forza di spostarli.

Il giorno dopo, quando tornammo in paese, la pietà e la solidarietà umana aveva cominciato a manifestarsi: tutti i morti erano stati portati in Chiesa e coperti con lenzuola forse provenienti dall'Ospedale (15) o scampati dall'incendio in qualche casa privata. Erano apparsi alcuni uomini che sfidando il pericolo mortale dei rastrellamenti tedeschi, avevano cominciato a prestare la loro pietosa opera.

Alcuni si erano appostati sulle mura per dare l'allarme in caso che le truppe tedesche si dirigessero verso il paese e i nascondigli erano pronti per tale eventualità.

Ma la situazione si manteneva calma, nessun tedesco in vista. Noi entrammo in Chiesa per trovare i nostri cari e cominciammo a scoprire i volti di quei poveri morti. Molti di quei volti erano quelli di cari amici che avevano fatto parte del mio mondo infantile e avevano contribuito a rendere la mia infanzia così serena e gioiosa; perché allora a Civitella ci si considerava tutti componenti di una grande famiglia.

Il dolore per i nostri cari si fondeva con quello per tutti gli altri in un crescendo di orrore e disperazione.

Alfine trovammo i nostri cari e fummo aiutati a portarli fuori.

Il calore di quelle giornate estive aveva cominciato la sua opera devastatrice, l'aria era ammorbata dal fetore dei cadaveri bruciati e di corpi sanguinanti in decomposizione.

Con la bocca e il naso sommariamente protetti da stracci imbevuti di alcol (forse proveniente dall'ospedale) cercammo di portare a fine la nostra opera.

Dalla famiglia Sabatini furono offerte assi di legno con cui vennero costruite in fretta rozze bare. Ricordo che noi fummo aiutati in questo bisogno dal signor Badii che io non conoscevo poiché veniva dal vicino paese di Viciomaggio. Ci aiutò anche a porre nelle bare i nostri cari.

Non sapendo come manifestare la nostra riconoscenza gli detti un pacchetto di sale, allora introvabile, rimasto in un angolo della nostra cucina, non ancora raggiunta dal fuoco.

Poi poste le bare sopra alcune carrette, senza neanche il conforto di un sacerdote, ci avviammo verso il cimitero, dove altri uomini di buona volontà, avevano nel frattempo scavato le fosse.

Intanto si era consumata la tragedia di mio zio Luigi Lammioni e della sua famiglia, tragedia di cui posso dire soltanto per il racconto di mio zio ed anche per la mia precisa conoscenza della casa.

Quando la mattina del 29 giugno io lasciai la casa di mio zio per scendere dai miei, essi decisero di non aprire la porta ai tedeschi (come avevamo fatto noi) ma di rifugiarsi nelle soffitte.

Questa decisione poteva essere buona perché le soffitte erano molto grandi, a più ripiani con tanti nascondigli che avrebbero senz'altro costituito un ottimo rifugio in caso di perquisizione da parte dei tedeschi.

Ma l'eventualità del fuoco non era stato preso in considerazione. Essi si rifugiarono nella parte più alta, in un soppalco a cui si accedeva per mezzo di una scala a pioli.

Nelle soffitte vi erano depositi, oltre che di vecchi mobili e vecchi libri, anche di carbone e di zolfo per curare la malattia delle viti.

Quando il fuoco cominciò a serpeggiare fra le vecchie travi di legno trovò facile esca in tutto questo e,quello che é peggio, nello zolfo.

Si provocò così un fumo irrespirabile, mio zio, con grande fatica, si aprì un varco nel tetto e riuscì a mettere in salvo una bambina sopra il tetto, ma quando, subito dopo, tornò nella soffitta per salvare la moglie e le altre due bambine, trovò il ripiano del soppalco sprofondato fra le macerie incandescenti insieme ai corpi della moglie Marietta e delle figlie Giuliana e Maria Luigia rispettivamente mia zia e mie cuginette.

Il vecchio legname aveva ceduto improvvisamente al fuoco. Non c'era più niente da fare. La tragedia si era compiuta.

Mio zio trovò la forza d'animo di scendere dal tetto con la sua bambina in braccio. S'imbatte in due tedeschi, si gettò in ginocchio chiedendo pietà per la bambina. I tedeschi si volsero dall'altra parte.

Ma mio zio non reggeva oltre allo strazio: tentò di avvelenarsi, andando nella stanza dell'Ospedale dove sapeva essere custoditi i veleni.

Fu salvato da una Suora che l'aveva seguito impressionato dal suo aspetto.

In seguito mio zio scavò nelle macerie ancora fumanti e riuscì a ritrovare il corpo di mia zia Marietta e di Giuliana la prima bambina di 5 anni.

Maria Luigia, due anni e mezzo, non fu più ritrovata. Quei corpi non avevano ormai più nulla di umano, erano delle masse nerastre, oblunghe, rotondeggianti dove era stata la testa.

Il cadavere di mia zia aveva un segno di riconoscimento, un piccolo lembo di vestito a fiori gialli e verdi che non so come era rimasto intatto.

Mentre mi abbandonavo a una scena di disperazione sopra quei poveri corpi (che erano stati portati sotto il loggiato) percepì un'ombra sopra di me, alzai gli occhi ma non feci in tempo ad avere paura: i due tedeschi che mi stavano osservando con un rigido dietro front si stavano allontanando in fretta.

Ormai avevano compiuto tutto quello che potevamo per i nostri cari e non rimaneva più niente che ci trattenesse in paese. Le nostre case erano distrutte e con esse tutte le nostre cose. Prendemmo così_un'altra decisione sbagliata, ci dirigemmo verso il nostro podere "Malfiano", sperando di trovarvi rifugio e qualcosa da mangiare, mentre invece andammo incontro ad altri avvenimenti spaventosi e ad altre sciagure.

 

Racconto dei giorni 18-29 Giugno 1944 in Civitella della Chiana(AR)