Malfiano dopo il passaggio del fronte

Memoria di un Massacro

Malfiano il passaggio del fronte

Parte terza

(in Italiano)

Memory of a Massacre

MALFIANO

Tirth part

(english)

 

Non mi ricordo granché del giorno in cui ci incamminammo verso Malfiano, il nostro podere a pochi chilometri da Civitella. Questa decisione fu considerata l'unica possibile, poiché era ragionevole pensare che lì avremmo trovato almeno un po' di cibo e un giaciglio al coperto dove trascorrere la notte.

Ormai era diversi giorni che non toccavamo cibo e si passava la notte seduti su qualche panca all'orfanotrofio di"Poggiali". A noi si erano uniti la zia Assunta con i suoi quattro bambini e tre o quattro paesani che volevano condividere la nostra sorte.

  Ma appena giunti a Malfiano, capimmo che eravamo capitati nel luogo sbagliato. Le case coloniche erano state  occupate da un drappello di tedeschi (sembra che fossero 12), che si erano appropriati anche di tutte le provviste alimentari.

La sorpresa fu terribile. Vedere da vicino un'altra volta quelle divise (anche se non erano delle S.S.) ci acutizzava il senso di terrore e di sgomento che già portavamo in noi.    Avremmo voluto scappare via, ma dove? Intorno non c'era più via di scampo. Il fronte era vicinissimo, forse poco più di un chilometro in linea d'aria e la battaglia infuriava.

 Intanto il lungo digiuno, la mancanza di sonno ,le prove che avevamo subito cominciavano a intaccare la nostra resistenza.

Mia madre Armida e mio zio Luigi annientati dal dolore, la mia sorellina Maria Grazia stravolta da emozioni più grandi di lei,

la mia cuginetta Vittorina (5 anni, superstite dell'incendio della sua casa) che non poteva superare

il tremendo choc e riviveva durante il sonno i momenti della sua tragedia.

La mia famiglia che costituiva il mio sostegno, il mio punto di riferimento era stata annientata.

lo mi sentivo ormai sola ad affrontare quel futuro così minaccioso.

I contatti con i tedeschi erano evitati il più possibile. Ce ne stavamo per conto nostro, facendo di tutto per non essere notati.

Avevamo cercato di far loro capire (ma non sapevano una parola di italiano) che eravamo sfollati da Arezzo,

dove la nostra casa era stata distrutta dalle bombe alleate.

Questo per cercare di rendere la convivenza meno pericolosa. Ma anche i pochi contatti erano stati scoraggianti.

Ci cacciavano in malo modo quando chiedevamo qualche coperta per i bambini e quando si chiese un po' di zucchero poco mancò che non ci si prendesse un colpo di fucile.

Ma per amore di verità devo anche raccontare un altro episodio.

Me ne stavo tutta sola seduta in un angolo, quando si avvicinò il sottoufficiale che comandava il drappello.

Non so esattamente quale grado avesse, era di un età più matura rispetto agli e aveva un aspetto più umano ("é un Austriaco" aveva detto una volta lo zio Gigi, ma non so su quali basi).

Non c'era nessun'altro soldato in giro in quel momento ed egli mi venne vicino e mi fece cenno di consegnarli l'orologino che portavo al polso.

lo gli obbedì a malincuore: era l'unico oggetto che ormai mi era rimasto e mi era stato regalato da mio padre quando avevo preso il diploma.

Lo prese, lo chiuse nel palmo della mano e con mia grande meraviglia me lo restituì, facendomi capire di tenerlo nascosto per evitare tentazioni da parte degli altri soldati.

Questo piccolo gesto di umanità fu per me un grande sollievo.

Del resto questo stesso sottoufficiale doveva esserci di immenso aiuto in una circostanza ben più drammatica.

Nel frattempo l'offensiva alleata si faceva sempre più violenta, i cannoneggiamenti aumentavano d'intensità, le vecchie case coloniche erano colpite ininterrottamente e le schegge di granata piovevano dappertutto (per 50 anni ne abbiamo trovate in grande quantità nei campi e ancora oggi continuiamo a trovarle).

La situazione stava diventando pericolosa anche da questo aspetto.
Si diceva che l'unico posto un po' più sicuro era sotto gli archi della casa che oggi è stata chiamata "Casa Edi". Un arco è ancora tutt'oggi ben solido (vedere foto alla fine del capitolo), mentre l'altro crollò.

Eravamo 35 persone, compresi noi e i coloni. Tutti ci eravamo rifugiati al riparo di quegli archi. lo però non avevo paura delle bombe ed ero l'unica che si avventurasse nell'aia per prendere qualche gallina o oca che fosse, colpita e smembrata dalle granate e ormai diventata verde e nera sotto il sole cocente. E poi dopo averla sommariamente cucinata se ne mangiava un piccolissimo pezzetto ciascuno.

Ne risultava qualcosa di veramente schifoso, ma il digiuno si prolungava ormai da troppo tempo e qualcosa dovevamo inghiottire.

Intanto i tedeschi si davano un gran daffare per rispondere all' offensiva alleata.

Gli uomini dicevano che avevano una sola mitragliatrice e che la spostavano da una finestra all'altra della casa al primo piano (dove adesso è stata ricostruita casa Elena, vedere foto alla fine del capitolo) per creare l'impressione di una massiccia presenza.

Infatti noi dal nostro rifugio sentivamo un gran tramestio al piano di sopra, passi pesanti e rumore di oggetti spostati.

La situazione era diventata insostenibile.

I contadini erano preoccupate per le bestie bianche, bovini, che erano la loro unica ricchezza e che avevano lasciato libere per sottrarle ai tedeschi.

Nonostante il pericolo, uscivano di notte per assicurarsi che non si erano perdute.

Questo costò la vita a uno di loro e forse in un certo senso creò un maggiore pericolo per tutti noi.

Infatti i tedeschi sospettavano che data la vicinanza con le linee alleate svolgessero lavoro di spionaggio e che tutti noi ne fossimo coinvolti.

Una notte, oltre il rumore dei soliti cannoneggiamenti, udimmo dei boati infernali, mentre il cielo diventava bianco; come se si fosse stati in pieno giorno. Tutto ciò durò ore mettendo a dura prova le nostre orecchie. "I tedeschi hanno dato fuoco al deposito di munizioni di Fogliarina (circa un paio di chilometri in linea d'aria) dicevano gli uomini.

Era questo un segnale sicuro che i tedeschi stavano abbandonando la linea difensiva.

Ma il nostro destino quale sarebbe stato? Noi eravamo troppo isolati, completamente in balia di questi 12 tedeschi che si dimostravano sempre più ostili.

Quali violenze avrebbero potuto compiere prima di ritirarsi?

Poi ,mi pare la notte seguente, subentrò una relativa calma. I cannoneggiamenti erano quasi cessati. E i tedeschi non si sentivano più. Il silenzio era completo. Ci eravamo riuniti tutti in una cantina dove ad una parete erano allineate alcune botti.
La cantina era la stessa stanza che ora è la cucina di Casa Edi e la parete era quella vicino alla porta. Il silenzio e la calma si prolungarono e il sollievo cominciava ad impadronirsi di noi.

"I tedeschi se ne sono andati", "Siete sicuri che non siano ancora in casa e magari si sono addormentati?", " No, in casa non c'è nessuno". La speranza di essere ormai salvi si faceva sempre più consistente. Qualcuno incominciò a dire che presto sarebbero arrivati gli alleati.

Poi a un tratto, si sentì il rumore di pesanti passi cadenzati che si avvicinavano.

"Ecco, questi sono i liberatori, facciamo sentire che siamo civili", "fate piangere i bambini, così non ci scambiano per tedeschi".

I bambini,a comando,cominciarono a piangere, mentre gli altri gridavano: "Evviva i liberatori!''.

Ricordo che il buio era assoluto, non avevamo nessuna forma di illuminazione ed anche il lumino ad olio che prima ci aveva dato qualche sprazzo di chiarore si era spento. I soldati erano arrivati.

Ma alla luce di una torcia che essi portavano io subito riconobbi l'ormai troppo nota forma degli elmetti tedeschi.

"State zitti,per carità", gridai con quanta voce avevo, per superare il clamore degli altri: "Questi sono tedeschi". Si fece silenzio di tomba .

Ma i tedeschi avevano udito le nostre voci e benché non conoscessero l'italiano, comprendevano sicuramente il significato della parola "Liberatori".

Si può quindi immaginare il loro stato d'animo verso di noi. Entrarono nella cantina ed uno di essi urtò con il fucile Alessandro Lammioni uomo alto e di grossa corporatura. Questo come se fosse infastidito scostò con la mano la canna del fucile. La reazione fu immediata e violenta .

Il soldato gli sparò a bruciapelo. Sandro cadde fulminato e per poco non ci travolse nella sua caduta.

Il terrore, quello vero, invincibile che ci afferra di fronte alla morte immediata, s'impadronì di noi.

Mi ricordo che io cercai scampo dietro ad una botte, questo atto istintivo, inutile e assurdo può dare un'idea di quello che esplodeva dentro di me, di come invincibile facente parte essenziale di tutto il nostro essere sia l'istinto di conservazione.

I soldati intanto, con voce minacciosa ci intimavano di uscire dalla cantina "raus, raus". Ci misero in fila tre o quattro per volta e ci fecero incamminare verso il fienile una costruzione

che stava a un centinaio di metri di distanza (più o meno dove ora sorge il giuoco delle bocce).

Ricordo che mia madre si appoggiò a un muro della casa e disse pressappoco "sparate a me, ma lasciate liberi tutti gli altri".

Probabilmente i tedeschi non capirono nulla di queste parole e non se ne curarono, infatti la spinsero di nuovo nel gruppo con gli altri.

Ogni tanto ci dicevano nel loro italiano approssimativo: "tutti caput, domani mattina tutti neri", intendendo che ci avrebbero dato fuoco, con riferimento, penso alla gran quantità di fieno e paglia contenuti nel fienile.

Non saprò mai se avessero veramente intenzione di porre in atto questa minaccia, ma non era certo abitudine dei tedeschi minacciare invano.

Frattanto ci fecero entrare nel fienile e due di quei soldati incominciarono a dire: "dove essere signorina?".

Era evidente che si riferivano a me. Di fronte a questa nuova minaccia che questa volta mi riguardava direttamente e nonostante il terrore che mi attanagliava i visceri, il mio cervello tornò parzialmente a funzionare per trovare una via di scampo.

Il buio era pressoché completo, ed io cercai di mimetizzarmi vicino ad alcune donne anziane vestite di nero.

Indossavo ancora, dalla mattina del 29 giugno un vestitino a papaveri rossi molto vivace e riconoscibile e avendo trovato a tastoni uno straccio scuro, (una vecchia giacca usata dai contadini per dare il solfato di rame alle viti) e la indossai per nascondere il mio vestito colorato, mi feci dare un foulard nero da una delle donne vicino a me, me lo avvolsi in testa per nascondere i capelli e per completare la trasformazione raccolsi dal pavimento una manciata di materiale imprecisato e mi impiastricciai tutto il viso.

Poi mi rannicchiai vicino ad un vecchio contadino, abbracciandolo stretto.

I due di prima che nel frattempo si erano allontanati per qualche minuto,erano già tornati, ma questa volta avevano una torcia.

Si guardavano in giro e ripetevano: "dove essere signorina, no signorina tutti caput"; non vedendo da nessuna parte il mio vestito colorato rimasero perplessi e cominciarono a cercare sistematicamente.

Qualche voce, non precisamente caritatevole si levò dai miei compagni di sventura "non è giusto che per una persona sola,si debba scontare tutti! bisogna che lei si faccia avanti!".

Per queste parole io però non serbai alcun rancore, mi rendevo fin troppo conto del loro stato d'animo.

lo certamente non avevo nessuna intenzione di farmi'avanti e nel mio cervello turbinavano piani di difesa e di fuga, uno più irrealizzabile e sconclusionato dell'altro.

Intanto i due tedeschi continuavano a cercare, gettando il fascio di luce della torcia sui volti delle persone.

Era chiaro che il mio travestimento non avrebbe retto a questa ricerca.

Capivo che per me non c'era più scampo.

Tutto a un tratto, e l'evento ebbe del miracoloso, il silenzio totale che aleggiava intorno fu rotto dalla voce del sottoufficiale, che con secchi ordini richiamava i due soldati.

Essi infatti istantaneamente si diressero verso l'uscita dopo aver fatto capire a cenni, e ripetendo molte volte la parola "caput" che ben presto sarebbero tornati.

Chiusero a chiavistello la porta dall'esterno. Il pericolo non era affatto scongiurato, ma ci era stato concesso soltanto un breve rinvio.

Tuttavia. io, e credo anche gli altri provammo un gran sollievo, perché quando si sente la morte così vicina sembra una cosa preziosa il conquistare anche solo qualche minuto di vita e questi minuti si dilatavano come se fossero diventati ore e giorni.

Ed ecco che inaspettatamente incominciò l'offensiva alleata. Un'offensiva, violenta, tremenda come se tutte le forze militari alleate si fossero concentrate su un unico obbiettivo: Malfiano.

Il frastuono ci assordava, il cielo era illuminato a giorno, i proiettili cadevano da tutte le parti.

Ma a me, e forse anche agli altri, tutto questo dava sollievo e coraggio perché pensavo che fino a quando durava l'offensiva i tedeschi non sarebbero tornati.

L'eventualità che una cannonata colpisse il fienile e forse incendiasse tutta quella paglia non mi turbava granché: sempre meglio che rivedere quei tedeschi affacciarsi alla porta.

Non so dire quanto durasse l'offensiva e neanche quante ore fossero passate da quando eravamo stati rinchiusi in quel fienile, ma certamente quella fu: "la notte più lunga" un nostro "D.Day" privato.

Come Dio volle, l'alba incominciò a filtrare attraverso i finestrini del fienile, fatti di mattoni incrociati. E l'offensiva, così come era improvvisamente incominciata, improvvisamente cessò.

Subentrò un silenzio totale. Non si sentivano neanche le voci dei tedeschi. Gli uomini si scossero finalmente dal torpore e cominciarono ad occhieggiare attraverso gli spazi dei mattoni.

Non si vedeva nessuno, né si sentiva alcun rumore.

Decidemmo che era il momento di rischiare e cercare di liberarsi.

La porta del fienile era robusta, ma gli uomini validi erano una diecina e così dopo alcuni tentativi, la porta fu scardinata.

La prima cosa che vidi nella luce ancora biancastra dell'alba furono i corpi di tre tedeschi, riversi per terra vicino alla concimaia (dove adesso c è la piscina), con le braccia spalancate.

Non mi fermai certo ad osservarli, né indagai dove fossero gli altri tedeschi; volevo solo fuggire, fuggire subito da quel maledetto luogo di terrore.

Così dopo aver detto ai miei:"andiamo subito verso le linee inglesi" m'incamminai alla cieca attraverso i campi che degradavano verso la pianura.

Non stetti a pensare quale fosse la via più corta, né se ci fosse qualche sentiero che facilitasse la fuga.

C'era qualche altro con me, ma non mi ricordo chi fosse; so soltanto che correvo come una pazza.

Ad un tratto cominciammo a sentire il crepitio di mitragliatrice proprio vicino a noi. Era evidente che da qualche postazione in alto su nella collina della "Guardiola" (un podere sopra Malfiano sempre di proprietà Lammioni denominato così poiché è in posizione eccellente per la vista sottostante) ci stavano mitragliando.

Eravamo proprio noi, l'obbiettivo di quegli spari, perché man mano che ci si muoveva, ci seguiva il crepitio dei colpi.

Mi ricordo che per cercare scampo, mi riparai in una macchia di rovi che mi graffiarono tutta e mi strapparono il vestito.

Poi lentamente riuscimmo a trovare protezione sotto il muretto di un campo terrazzato e gli spari cessarono.

E finalmente,dopo qualche minuto, avvenne il sospirato incontro con le forze alleate. Vedemmo un soldato solo, calmo, calmo che sembrava più interessato a guardare il grano ancora nei campi che ad informarsi sulla situazione militare.

Visto da vicino certo non incarnava "l'eroe liberatore" che forse io inconsciamente mi aspettavo di trovare.

Portava l'elmetto che io avevo imparato a riconoscere da un poster che aveva tappezzato l'Italia: la caricatura, appunto, di un soldato inglese, con questo elmetto e un orecchio enorme e con sotto la scritta "taci, il nemico ti ascolta".

Questo elmetto però aveva una reticella che serviva a tenere a
posto ramoscelli di quercia (stranamente pensai subito che non mi sembrava una mimetizzazione adeguata).

Il soldato non era molto giovane, aveva il viso rosso acceso che assomigliava ai bargigli di un tacchino.

Ad ogni modo, appena lo si vide, tirammo fuori uno straccio che una volta era stato bianco e sventolandolo con energia ci avvicinammo.

Il soldato sembrò non condividere il nostro entusiasmo, ci guardò appena e continuò a camminare per la sua strada.

Naturalmente, per lui, questo incontro non aveva la stessa importanza e significato che aveva per noi.

Continuammo dunque a camminare, ma ad un certo punto mi accorsi che ero rimasta sola.

Forse gli altri avevano preso una scorciatoia o altro, comunque intorno a me non c'era più nessuno.

Non era il caso di tornare indietro, così continuai ad andare avanti, sicura che prima o poi avrei incontrato le linee inglesi.

Infatti il primo segnale che ero arrivata furono grandi fasci di fili stesi per terra, simili a quelli elettrici di vari colori (fili telefonici, mi dissero dopo).

Ce ne erano tanti che ad ogni passo ci inciampavo.

Poi incominciai a vedere grandi pentoloni (per il tè, seppi dopo) e finalmente qualche soldato. Ero capitata nelle cucine (dopo ho saputo, da un caro amico, che mi ero imbattuta nella divisione Britannica. Questa partendo da Foiano della Chiana si divise in due direttive, una verso Civitella della chiana e l'altra verso Tuori: (vedere tavola allegata).

I soldati si affaccendavano intorno al cibo; dappertutto si vedevano penzolare, simili ad asciugamani stesi ad asciugare, grandi sfoglie di farina di grano, una specie di quelle che facevamo noi in casa.

Mi resi conto allora di avere una grande fame e che l'ultimo boccone di gallina imputridita risaliva a diversi giorni prima.

Nessuno sembrava aver notato la mia presenza e allora io, fattami coraggio, mi rivolsi ad uno di loro e non mi ricordo se a gesti o parlando in italiano chiesi di mangiare.

Fui subito accontentata e mi presentarono un grande vassoio con un bel pezzo di pane bianco, diverse fette di carne arrosto, una ciotola con una "pappina" bianca (scoprì in seguito che si trattava del "porridge") e una tazza di tè.

lo mi gettai sul cibo con voracità, ma il mio stomaco, forse indebolito dal lungo o per qualche altra ragione mi giocò un brutto scherzo: si rifiutò di inghiottire qualsiasi cosa.

Mi sembrava di essere Pinocchio che, affamato, pregustava le leccornie che aveva davanti, quando si accorse che tutto, dal pollo arrosto alla frutta, era finto.

Restituì allora il vassoio intatto al soldato che mi guardò con aria di disapprovazione.

Dopo un po' fui condotta alla presenza dell'Ufficiale al comando della zona.

Aveva istallato il suo ufficio all'interno di un camion.

Sedeva ad un tavolo ingombro di carte e con un frustino posato in un angolo.

Con fare scostante, guardandomi appena, cominciò a rivolgermi domande in una lingua a me allora sconosciuta, senza neanche prendersi il disturbo di togliersi la pipa di bocca.

Naturalmente io non ero in grado di rispondere, non mi ricordo se dissi qualche parola di italiano o mi limitai a guardarlo con aria inebetita. Ad ogni modo mi congedò subito, seccamente.

Discesi dal camion e avendo desiderio di bere un po' d'acqua, chiesi, non mi ricordo a chi, dove fosse una sorgente.

Mi fu indicato un posto distante, forse mezzo chilometro, in fondo ad un campo.

Raggiunsi facilmente questa sorgente, ma nel voltarmi, vidi brillare nell'erba alta, la canna di un fucile, puntato verso di me.

Dietro il fucile c'era un soldatino, sdraiato per terra, seminascosto dall'erba.

Evidentemente mi aveva seguito fino a lì. lo rimasi sconcertata.

Perché mi aveva seguito a mia insaputa, tenendomi sotto la mira del suo fucile? Ero stata giudicata un tipo pericoloso, forse una spia ?

Poi improvvisamente mi resi conto di quale doveva essere il mio aspetto: il vestito poco meno che a brandelli, il sangue delle ferite dei rovi che mi colava dalle braccia e dalle gambe, il viso e i capelli ancora impiastricciati di fango, per sfuggire ai tedeschi la notte precedente.

Mi lavai e mi rassettai meglio che potei e seguì di nuovo il soldatino verso la casa colonica dove erano alloggiati.

lo trovai una stalla vuota, ma con tanta paglia e sentendo gravare su di me il peso di tante notti insonni, di tante emozioni e tanto terrore mi addormentai di colpo, non facendo neanche caso al nugolo di mosche cavalline ed altri insetti che oscuravano l'aria.

Mi svegliai qualche tempo dopo e mi trovai tutta avvolta in una rozza coperta militare, evidentemente per ripararmi dalle punture di quegli insetti.

Non riuscì a sapere chi avesse compiuto quel gesto gentile e diciamolo pure disinteressato.

Poco dopo mi vennero a cercare: era arrivato l'interprete.

Era venuto in motocicletta, non so da quale parte, per interrogarmi.

Parlava un italiano perfetto, senza la minima inflessione straniera o incertezza nell'uso del lessico.

Mi sembrava un italo-americano. Cominciò a chiedermi da dove venivo. Non mi sembrò molto colpito dal mio concitato racconto della strage di Civitella e insisté invece sulle notizie di tipo militare.

"Quanti erano esattamente i tedeschi nel casolare di Malfiano ?"
"Di che tipo era la mitragliatrice ?"

"Avevano altre armi ?"

"Erano in collegamento con gli altri avamposti ?"

"La piccola costruzione in alto era un deposito di armi?" (la chiesetta di San Francesco, protettore del podere, le macerie adesso poste a un centinaio di metri sopra Malfiano).

lo potevo rispondere solo superficialmente a tutte queste domande, non ne sapevo quasi nulla, non me ne ero affatto interessata.

Alla fine non ne potei più e diedi sfogo all'amarezza che era dentro di me, dicendo in modo piuttosto aggressivo: "Ma insomma che razza di esercito siete? Tutta un'armata ferma qui per giorni e giorni per 12 tedeschi che si affannano a spostare una mitragliatrice da una finestra all'altra per darvi l'impressione di essere in tanti ? Vi abbiamo aspettato giorni e giorni inutilmente; non sapete che stavano per massacrarci tutti ?"

E dissi altre cose ancora non esattamente elogiative per gli eserciti Alleati.

L'interprete mi lasciò parlare, poi con grande calma rispose: "La vita di un nostro soldato ci costa 20 anni di sacrifici e di spesa, non possiamo mai metterle a rischio e dobbiamo muoverci sempre con la massima sicurezza" ("Mettere a rischio, poi, per venire a salvare voi che fino a ieri eravate nostri nemici" era il pensiero non espresso, ma evidente.)

Questa risposta mi fece riflettere; capi in quel momento, anche se in modo confuso ,come due mondi, due ideologie profondamente diverse si scontrassero.

Le mie idee, ingenue e fanciullesche sul "soldato eroe" ebbero una scossa.

Non potei fare a meno di pensare a quei tre tedeschi, lassù a Malfiano stesi per terra vicino alla concimaia, lasciati lì, a marcire sotto il sole, senza neanche una sepoltura, una parola di pietà.

Avevano combattuto con disumana ostinazione ed accanimento una battaglia senza speranza, non si sa se per un malinteso senso di disciplina e di dovere o per un atavico amore per la guerra.

Erano stati lasciati con armi inadeguate, senza cibo, la loro vita era stata messa a rischio, eccome e per quale ragione?

Per loro non c'era il tè pronto e la cucina a disposizione.

Un vago senso di pietà verso i miei ex aguzzini si stava impadronendo di me, mio malgrado.

Non dissi più niente all'interprete, solo che avevo perso i contatti con la mia famiglia e se poteva aiutarmi a ritrovarla.

Egli infatti sapeva che un gruppo di fuggiaschi dalle colline aveva trovato rifugio alla "Fattoria di Dorna" a pochi chilometri di distanza.

Mi fece dirigere lì, anzi mi fece salire su una jeep, dove erano già alcuni soldati e disse all'autista dove doveva condurmi.

Lungo la strada cadevano frequentemente spezzoni di granata e uno di quei soldati mi mise in testa uno dei loro elmetti con reticella e tutto il resto, per ripararmi.

Fu allora che alcuni uomini del posto che sostavano ai margini della strada, cominciarono ad inveire e a lanciare contro di me insulti irripetibili.

Evidentemente mi avevano scambiato per una "signorina" al seguito dell'esercito alleato.

Questo era veramente troppo. In un impeto di ribellione incontrollato, tentai di saltare giù dalla jeep per correre da quegli uomini e urlargli contro come si erano sbagliati, chi ero veramente, quello che avevo dovuto passare.

Il soldato vicino a me mi afferrò per un braccio, guardandomi sbalordito con la sua faccia fanciullesca.

Forse pensò ad un eccesso di pazzia. Non aveva capito niente, ovviamente, né io ero in grado di spiegare, ma d'altra parte come poteva capire quel ragazzo che faceva, si, la guerra, ma con il tè mattutino e il porridge pronto proprio come a casa e con qualcuno che si preoccupava di non mettere a rischio la sua vita.

lo mi accucciai allora sul sedile della jeep mentre lui, per precauzione, continuava a tenermi per le braccia.

Ma d'altronde eravamo già arrivati alla fattoria di Dorna, dove trovai i miei in uno stato di grande angoscia, perché ci eravamo persi di vista, e non sapendo che cosa mi era successo, pensavano al peggio.

Stemmo alla fattoria qualche giorno e mi ricordo che lì vicino c'era una postazione di cannoni, puntati verso la zona di Civitella dove evidentemente perdurava la difesa tedesca.

I cannonieri erano canadesi, tutti giganti biondissimi, con un basco invece che con il classico berretto inglese.

Quando si accorsero che noi eravamo impauriti e frastornati per l'assordante rumore delle cannonate, si misero a sparare all' impazzata perché si divertivano a vedere noi che si scappava, turandoci le orecchie.

Ridevano tutti contenti, si divertivano a sparare, facendo una loro guerra privata in grande allegria, non so con quale vantaggio per gli obbiettivi da raggiungere.

Fummo costretti a non muoverci più dalle stanze per non provocare quel sovrappiù di spari.

Dopo un giorno o due un camion della C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) ci trasportò nel paese di Foiano della Chiana che il passaggio del fronte aveva lasciato pressoché intatto.

Fummo alloggiati presso facoltose famiglie del luogo che ci offrirono conforto e solidarietà.

Ma l'aver raggiunto un certo stato di sicurezza e relativa comodità, cessato il pericolo dei tedeschi, della guerra, della morte imminente in altre parole, allentato lo stato di tensione innaturale, ecco che il dolore per la morte dei miei cari, la disperazione per aver perduto tutto, mi ripiombò addosso con orribile violenza.

La sera, mi ricordo, arrivava alle mie orecchie il suono di ritmi e musiche sconosciute, (il boogie woogie seppi dopo) e con esse le voci allegre delle ragazze del paese, che, passate indenni dagli orrori della guerra e ritrovati i loro vestiti più graziosi, ballavano in piazza i nuovi ritmi, portati dai "liberatori".

lo invece seduta in un angolo della mia cameretta, piangevo; piangevo per tutti i miei cari, uno per uno e per tutti i miei paesani ricordando di ognuno una parola, un gesto, un sorriso.

A questo mio disperato dolore, cominciava ad unirsi anche un altro sentimento: la ribellione di fronte all'insopportabile ingiustizia: perché gli altri potevano ancora ridere, essere felici?

Perché a me era negato tutto questo ? In fondo avevo appena vent'anni e il mio diritto alla vita si faceva sentire prepotente.

Non sapevo ancora come il tempo possa curare tutte le ferite, attutire anche il più inumano dolore, offuscare i più terribili ricordi.

Credevo che sarei rimasta schiacciata per sempre da quegli avvenimenti, da quella disperazione e che per me non ci sarebbe stata né rinascita né futuro.

Intanto la nostra storia pietosa si era diffusa nel paese di Foiano e cominciarono doni di ogni genere: oggetti di vestiario, biancheria scarpe e tanto, tanto cibo: grosse forme di pane, formaggi di ogni specie, prosciutti e salami, frutta in grande abbondanza.

Finalmente potevamo saziare la fame che per tanto tempo ci aveva attanagliato.

Ma io non potei godere a lungo di questo ben di Dio.

Cominciò con una strana e inspiegabile avversione al cibo; una nausea invincibile alla vista del mangiare.

Poi cominciai ad avvertire violentissimi dolori all'addome, mentre la febbre cresceva vertiginosamente.

Giacevo nel pavimento di una cameretta, (i nostri ospiti non avevano potuto procurare un letto, nonostante la buona volontà) e battevo i denti per il freddo nonostante le torride giornate di luglio avvolta nelle rigide coperte militari che sembravano fatte di spini.

Poi tutta la mia pelle si colorò di un bel giallo limone.

Mio zio,preoccupatissimo, si precipitò in paese a cercare un medico e non so come riuscì a trovarlo.

Il medico mi visitò, ma subito diede a vedere che il quadro dei sintomi non gli era familiare: ci disse che poteva trattarsi di calcoli al fegato oppure di itterizia ... ad ogni modo medicine non se ne trovavano, l'ospedale di Foiano era stracolmo per una epidemia di tifo e così mi consigliava di prendere al mattino un bel cucchiaio di olio di oliva che era un ottimo medicinale per il fegato.

Poi se ne andò scrollando la testa e lasciandomi al mio destino.

Dopo molti anni, sfogliando per caso una rivista, mi cadde l' occhio su un articolo, poche righe, dove erano contenute alcune notizie che mi interessavano: durante il periodo della permanenza delle truppe alleate in Italia, si era sviluppata una epidemia detta "morbo giallo", (e qui la descrizione precisa dei miei sintomi) che portò molte perdite sia fra i soldati che i civili.

Una statistica completa non si poteva fare, per la mancanza di dati precisi ... ma comunque la malattia aveva avuto spesso esito letale.

lo fortunatamente guarì del tutto, non so se per merito del miracoloso olio di oliva, o per la robustezza dei miei vent'anni.

Dopo la mia guarigione piano, piano, la mia superstite famiglia, uniti nel grande affetto che ci legava, cominciò a percorrere la lunga, difficile penosa strada verso la normalità.

Testimonianza del passaggio del fronte - luglio 1944

Lara Lammioni in Lucarelli